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"Trilogia dell’indignazione" di Esteve Soler – Regia di Giovanni Meola

Al Teatro Piccolo Bellini di Napoli dal 25 al 30 aprile



di Antonio Tedesco


Non c’è scampo, non c’è assoluzione, non c’è via di fuga, dalla bizzarra e spietata drammaturgia di Esteve Soler. Che in Trilogia dell’indignazione che la Compagnia Virus Teatrali presenta, fino al 30 aprile, al Piccolo Bellini con la regia, la riduzione e l’adattamento di Giovanni Meola, trova un’espressione più che esauriente della feroce carica destabilizzante che l’attraversa. Lo spettacolo si basa sulla selezione e il montaggio di parte dei numerosi brevi e fulminanti pezzi che costituiscono la triade drammaturgica dell’ autore catalano. I cui numi tutelari, dichiarati, sono, non a caso, Beckett e Pinter. Tanto che il suo lavoro si potrebbe definire anche come una evoluzione (postmoderna?) del teatro dell’assurdo. Dove l’assurdo, ovviamente, siamo noi. Il mondo vorticoso le cui leggi, inspiegabili e inafferrabili, governano, nostro malgrado, le vite di tutti. Soler utilizza l’eccesso e il paradosso per farci vedere ciò che abbiamo sotto gli occhi e fingiamo di ignorare. Attacca i luoghi comuni del nostro quotidiano con apparente spirito nichilista. Contro il progresso, Contro l’amore, Contro la democrazia, titolano le parti che formano la sua trilogia. La sua è una drammaturgia “asciugata”, spogliata di ogni sovrastruttura retorica, dove ad esprimersi, pare, sia una sorta di subdolo e strisciante subconscio collettivo e individuale, liberatosi da ogni filtro, da ogni inibizione, da ogni ipocrita convenzione sociale. L’effetto è straniante. E spiazzante. Ci costringe a fare i conti con prospettive (e pulsioni) che la nostra mente cosciente tende ad arginare, negandole o ignorandole. Eppure ci appartengono, sembra dirci Soler, sono lì, sempre pronte a balzar fuori, a gettare la maschera, a mostrare la propria vera natura. Tra la “mistica” estasi finanziaria e produttiva di una divinità aziendale, e la serena e consapevole decisione di due genitori di sopprimere una figlia non voluta, si racchiude l’arco di una rappresentazione dove il frammento si fa cifra stilistica, ma senza per questo rinunciare ad una solida e intima coesione di fondo. Ciò a cui assistiamo è una vertiginosa fuga in avanti di quanto è già qui, la prospettiva di crescita di un embrione già minacciosamente presente. La regia di Giovanni Meola organizza il “materiale” scenico e drammaturgico con precisione geometrica, imprimendo alla recitazione una distanza emotiva che il più delle volte, però, tende al suo contrario. Gli attori recitano le loro battute rivolti verso il pubblico, quasi a chiamarlo in causa, in una sorta di esplicito e diretto coinvolgimento. Ogni brano, o frammento, ha un suo narratore che da un lato del palcoscenico descrive il contesto e le azioni che i personaggi, in realtà, non compiono. L’azione scenica si spoglia, così, di ogni orpello o pretesa realistica. Resta solo la nuda rappresentazione di questo (apparente?) paradosso. Che è in realtà una visione del mondo, della nostra contemporaneità, della possibile deriva di un’intera civiltà. Il tutto rappresentato con divertita e divertente leggerezza. Che risulta più inquietante di ogni salvifica fuga nel dramma. Ottima la prova dei quattro attori in scena (Roberta Astuti, Vincenzo Coppola, Sara Missaglia e Chiara Vitiello) che si alternano con grande versatilità nella girandola di ruoli e personaggi che il testo, e la rappresentazione così articolata, impongono, contribuendo a creare una sorta di coerenza interna pur nel continuo mutare delle azioni rappresentate.


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