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Nunzia Gionfriddo si racconta

Il mio percorso di scrittrice? È una passione che coltivo da bambina



Di Simone Sormani


“Spero che il mio nuovo libro possa uscire per la fine di settembre e l’inizio di ottobre prossimo, in occasione dell’ottantesimo anniversario delle quattro giornate di Napoli, così da chiudere idealmente il percorso sulla Resistenza iniziato con Gli angeli del Rione Sanità e Sopravvissuti”. Così Nunzia Gionfriddo, nata a Napoli per caso ma “napoletanissima”, che in questa intervista si racconta e ci racconta la sua esperienza, ormai decennale, di autrice di romanzi storici.

“In realtà” dice “fino a qualche anno fa cercavo di evitare questa ʽetichettaʼ perché non volevo che i miei lavori finissero nella scia del romanzo storico tradizionale, quello manzoniano per intenderci, che non amo. Anche perché i miei personaggi sono, il più delle volte, realmente esistiti e non di fantasia. Però protagonista dei miei romanzi è la Storia, soprattutto quella dimenticata o mai sufficientemente approfondita, quindi oggi ritengo che questa definizione sia corretta”.

È una passione che ho coltivato fin da bambina. Alle elementari, un po’come tutti, mi piaceva annotare i miei pensieri e le cose che mi accadevano su dei diari. Poi da insegnante, all’Istituto Giordani di Napoli, all’epoca situato nel quartiere Sanità, cominciai a buttare giù dei canovacci teatrali per degli spettacolini che portavamo in scena con i miei alunni su tematiche sociali e storiche e su argomenti del programma di letteratura. Successivamente sono stata collaboratrice del compianto professor Giorgio Stabile presso la cattedra di Storia della Scienza alla Sapienza, e credo che quella esperienza mi abbia aiutato a maturare l’idea di dedicarmi alla scrittura di romanzi, partendo da fatti ed eventi dimenticati o che, per vari motivi, non trovano posto nei libri di storia. Così, nel 2013, è nato Chiocciole vagabonde.

Di cosa parla?

Di vicende che mi riguardano molto da vicino, quelle della mia famiglia materna. La mia trisavola, Ernestine Secret, era francese e sposò nel 1871 un ingegnere di origini abruzzesi che progettava ferrovie. Per via del suo lavoro girarono il mondo, giungendo fino in Asia, e dal loro matrimonio nacquero ben 23 figli. Sembra incredibile, tant’è che il primo editore a cui proposi questo mio lavoro mi rispose che era un bel racconto ma inverosimile! Invece era tutto vero ed io, partendo dalle memorie orali tramandatesi in famiglia, ho cercato di seguire passo passo le vicende di questi 23 figli, attraverso le notizie che mi sono state date dai vari consolati. Inoltre ho dovuto ricostruire il contesto storico in cui si svolsero i fatti, che abbraccia un arco temporale molto ampio, dalla fine dell’Ottocento allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, segnato dallo sviluppo della rete ferroviaria a livello mondiale, che rappresentò una rivoluzione, per quei tempi, del modo di viaggiare e commerciare e che racconto nel libro.

Nel 1939 poi mio nonno, che viveva ad Alessandria d’Egitto, allora colonia inglese, paventando la possibilità che Mussolini facesse entrare l’Italia in guerra, e che quindi tutti gli italiani che lì risiedevano potessero essere fatti prigionieri dagli inglesi, decise di venire a Napoli con tutta la famiglia per poi da lì tornare successivamente in Francia, il paese di nonna Ernestine. Ma poi rimasero a Napoli a causa dei bombardamenti anglo-americani, che distrussero la rete ferroviaria. Ecco perché dico che sono nata a Napoli per caso.

Alla base dei suoi romanzi ci sono sempre ricerche molto accurate e dettagliate. Come riesce a tenere insieme creazione letteraria e storia?

Comincio con il raccogliere i dati che si riferiscono al periodo o agli eventi che voglio trattare. Da questo punto di vista sono molto rigorosa, poiché da ex insegnante ritengo fondamentale che i miei libri abbiano anche un carattere didattico. Dunque approfondisco attraverso testi di saggistica, documenti di archivio e, laddove sia ancora possibile, testimonianze dirette. Cerco di non farmi influenzare dalle mie idee, e di far parlare tutte le voci. Infatti, pur essendo una convinta antifascista, in Cioccolata calda per due ho trattato il tema delle foibe e dei massacri perpetrati dai partigiani jugoslavi nei confronti delle popolazioni italiane durante il secondo conflitto mondiale, un altro di quegli episodi che negli anni il potere politico ha cercato di oscurare.

Una volta messo a punto un ʽcanovaccioʼ, comincio ad inserirvi i personaggi che, ripeto, sono sempre veri o comunque ispirati a persone realmente esistite. Ogni tanto, naturalmente, do anche sfogo alla mia fantasia inventando personaggi e situazioni, pure per dare maggiore respiro allo sviluppo della trama, ma sempre nel rispetto della verità.

Gli angeli del Rione Sanità e Sopravvissuti sono i primi due capitoli di una trilogia ambientata in una Napoli a cavallo tra il regime fascista, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra. Qual è il file rouge che li unisce?

Direi la Resistenza, che per me è stata una lotta per la democrazia che non è finita il 25 aprile del 1945 con la liberazione dal nazifascismo, ma è proseguita nel dopoguerra con le rivendicazioni sociali e sindacali, con le lotte femministe e quelle studentesche del ‘68 che si battevano per una democratizzazione del capitalismo e degli effetti del boom economico e contestavano l’idea di un mondo fatto solo di cose materiali. Ma anche il racconto di chi non ce l’ha fatta ed è stato sopraffatto, di chi per sopravvivere ha dovuto cedere alle lusinghe della criminalità organizzata o emigrare.

Come si concluderà la trilogia?

Nel libro a cui sto lavorando parlerò delle battaglie per la legalità e contro le speculazioni edilizie post-terremoto che hanno distrutto l’intera aera vesuviana, accentuandone i fenomeni di marginalità sociale. Una delle figure a cui mi sto ispirando è quella del giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra nel 1985.

E le donne che ruolo hanno in questa narrazione?

Fondamentale. Non dimentichiamoci che le donne hanno subito sul proprio corpo le violenze e la perdita di ogni valore umano e morale prodotti dalla guerra – e penso a quante sono state drammaticamente stuprate o costrette a prostituirsi in quel periodo – e pure in tante hanno saputo ‘resistere’: hanno imbracciato i fucili al fianco dei partigiani e poi sono state protagoniste della ricostruzione politica, civile, culturale e materiale di questo paese. Nei miei libri il punto di vista femminile è, dunque, molto presente.

Gli angeli del Rione Sanità si apre con uno dei protagonisti, Beppe, che si trova imprigionato in un carcere fascista senza ricordare il perché. Nel corso del romanzo dovrà mettere insieme vari tasselli per tentare di ricostruire l’accaduto. Una scena simile si ripete, seppur in forme diverse, nelle prime pagine di Sopravvissuti. Quanto è importante, per lei, la memoria e cosa bisogna fare per coltivarla nella società di oggi?

Prendo in prestito le parole di uno dei miei personaggi in Sopravvissuti: “La memoria? Non vi accorgete che proprio la memoria, tutti se la vogliono buttare alle spalle? Ricordare è doloroso, è scomodo e, secondo molti, non aiuta ad andare avanti. La memoria non serve per non ripetere gli errori, ma almeno ci dovrebbe aiutare a riflettere. La gente non ha voglia di pensare. Vuole divertirsi, mangiare più del necessario”.

Mi ricordano le parole di Eduardo De Filippo in Napoli milionaria!

Esatto. È proprio a lui che pensavo quando le ho scritte. Più gli eventi sono tragici è più si tende a voler dimenticare, a mettersi alle spalle il dolore come rimedio per esorcizzare il male. Ma non c’è idea più sbagliata!Il nostro presente è frutto di processi avvenuti nel passato, ignorarli vuol dire rinunciare ad esercitare libertà e coscienza critica e a porre degli argini invalicabili al potere, che del passato tende a fare un uso strumentale. Ma soprattutto vuol dire rinunciare a costruire consapevolmente il proprio futuro. Perciò scrivo romanzi storici, che indirizzo specialmente ai giovani e agli studenti. Sono loro che ne hanno più bisogno.

Aggiungo però che la memoria va coltivata in modo onesto, andando a ricercare soprattutto tra quelle pagine che sono rimaste sconosciute.

Nel settembre del ’43 Napoli fu la prima città italiana, e tra le prime in Europa, a liberarsi dagli occupanti nazisti con un’insurrezione popolare, quella della famose quattro giornate che ritroviamo in Gli angeli del Rione Sanità e in Sopravvissuti. Perché, secondo lei, spesso si tende ad esaltare solo la guerra partigiana del Nord, dimenticando il contributo fondamentale del Sud alla liberazione dell’Italia?

Torniamo al discorso della memoria e dell’onestà con cui devono essere raccontati gli avvenimenti storici. Si è parlato, infatti, di un’insurrezione spontanea della popolazione alle crudeli rappresaglie naziste, quasi a volerne sottolineare la mancanza di organizzazione o di una chiara matrice politica, come se fosse stata una nuova rivolta di Masaniello. In realtà, come ho riscontrato nei miei studi – e grazie alla collaborazione dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza, di cui mi sono avvalsa, e alle preziose interviste rilasciatemi dal partigiano napoletano Antonio Amoretti, recentemente scomparso – le quattro giornate furono premeditate e organizzate da una rete di antifascisti che riuscirono a coinvolgere le masse popolari. Ma ammetterlo significava, in qualche modo, togliere all’Italia settentrionale il primato di aver iniziato la Resistenza e agli americani quello di aver liberato tutto il Meridione! Che dire? Del resto Napoli è stata considerata un’appendice del Nord fin dall’Unità d’Italia, ed è difficile scalfire questa narrazione. Lo stesso bellissimo film di Nanni Loy sulle quattro giornate uscì nel 1962, a quasi venti anni dallo svolgersi dei fatti! Dunque c’è voluto molto tempo prima che se ne iniziasse a parlare.

Aggiungerei poi che, mentre la Resistenza del Nord ha avuto voci intellettuali importanti, come Fenoglio, Calvino, Pavese, al Sud la letteratura si è concentrata soprattutto sullo sfacelo morale e materiale prodotto dalla guerra. Penso, giusto per fare degli esempi, al film La ciociara di De Sica, tratto dal romanzo di Moravia, o a alla stessa Napoli milionaria! di De Filippo.

Tornando alla sua esperienza di scrittrice, a quale tra i suoi romanzi si sente più legata e perché?

Non vorrei essere retorica, ma i miei libri li considero un po’come dei figli. Mi affeziono a loro e ai loro personaggi. Infatti la mia trilogia, che sto per portare a termine, è nata pure perché non volevo staccarmi dai personaggi che avevo creato in Gli angeli del Rione Sanità. Però ce n’è uno a cui sono particolarmente legata, ed è Raccontami la mia storia. La protagonista è Marittella, un’anziana donna che ho conosciuto personalmente anni fa a Ravello, in Costiera amalfitana. Incuriosita da questa donnetta, piccina piccina, che passava le sue giornate seduta su un muretto nella piazza del paese, ho fatto amicizia con lei e mi ha voluto raccontare tutta la sua vita. È una storia ricca di poesia, ma anche di fatica, di lavoro, di sudore, di lotte, che ho voluto trasporre in romanzo perché trovo essere molto vicina alla mia sensibilità.


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