“Nero come il buio” riflessioni sull’animo umano
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Tre racconti prodotti dalla penna di Franco Forte, Diego Lama e Letizia Vicidomini per Homo Scrivens Edizioni sulle follie dell’interiorità dell’uomo
Di Roberta Verde

Il volume Nero come il buio – recentemente pubblicato da Homo Scrivens – raccoglie in poco più di 150 pagine tre racconti a firma di Franco Forte, Diego Lama e Letizia Vicidomini. Tre voci che, con stili diversi ma con approccio affine, danno corpo a personaggi complessi, straziati e strazianti.
Si parte con Smetti di guardare, probabilmente il racconto più disturbante e indecifrabile. Le pagine scritte da Forte restituiscono le perversioni di una famiglia di criminali, che si dedica con cura ossessiva ai piaceri carnali. Padre e madre sono entrambi omossessuali; il figlio, che si scoprirà essere stato adottato, è un cocainomane completamente soggiogato al volere genitoriale, in particolare quello femminile. La narrazione inizia in medias res, in un letto in cui giacciono obnubilati dagli stupefacenti un uomo – il narratore – e due donne. Da questo primo assaggio dal sapore fortemente erotico si dipanano una serie di descrizioni e di rivelazioni che lasciano il lettore interdetto. Se da una parte lo scrittore riesce a restituire la marcata devianza dei soggetti coinvolti, dall’altra si ha l’impressione che l’intento sia più quello di scioccare che di raccontare qualcosa di concreto. Le immagini descritte sono suggestive ma si punta troppo all’eccesso; in sostanza, la provocazione a tutti i costi, più che avvicinare il lettore, lo allontana. Sembra di leggere la sceneggiatura di un film sperimentale, in cui i rimandi visivi sovrastano la sostanza del racconto. È comunque lo stesso autore a dichiarare che “non è un vero racconto, o forse è la sintesi di tutti quelli che avrei potuto scrivere. Il dilemma è semplice: quanto è profondo il pozzo – nero come il buio – in cui il lettore è costretto a infilarsi insieme al protagonista? Impossibile per me stabilirlo. Meglio lasciare che siano i lettori a farlo...”. Il problema è che il lettore dovrebbe essere accompagnato nella storia, dovrebbe seguire un percorso la cui finalità primaria è l’entrare in empatia con i personaggi: ma in Smetti di guardare questo avviene parzialmente. Resta comunque il piacere di una scrittura matura, profonda, di forte impatto visivo.
Asciutta è invece la prosa che caratterizza il racconto di Diego Lama che con il suo Lockdown ci riporta alle vuote notti del covid. Protagonista l’Agente Gaetano Cimino, uomo non particolarmente simpatico, un po' tonto e fintamente pignolo. L’episodio con cui si apre il racconto – la multa all’uomo che cammina per la città deserta con la mascherina sotto il mento – ha i toni da commedia all’italiana. Cimino appare come l’Alberto Sordi di turno, la cui pedanteria nascondeva una grande inettitudine. Un episodio che, come ha dichiarato l’autore, ha un valore autobiografico “… una volta ai Vergini, mi trovai alle prese con un solerte giovane poliziotto in un momento difficile del pianeta, per fortuna lasciato alle spalle. […] L’unica differenza è che io riuscii a evitare la multa…”. A questo tono “leggero” si contrappone il racconto di una rapina, il cui esito sarà fatale per il poliziotto. Il “tempo” dell’azione, in cui lui e il collega Peppe devono controllare la zona del Museo, sembra sospeso, eterno: una calma apparente prima della tempesta finale. Il ritmo è coinvolgente e la latente tensione accompagna il lettore in una spirale di angoscia. I personaggi femminili sono appena abbozzati e la loro influenza all’interno delle dinamiche raccontate è molto labile; risultano comunque funzionali a smascherare il mondo miserevole e falso in cui è immerso il protagonista. Lama descrive una Napoli umida, fredda e scura, capace di mostrare un volto inedito, in cui vengono sovvertiti tutti i cliché legati alla sua immagine di “città del sole”. Qualche turpiloquio in meno sarebbe stato gradito.
Infine, Teatranti, in cui la Vicidomini conduce un non facile lavoro di lettura psicologica di una coppia borghese solo in apparenza perfetta. L’amore che Francesco ed Eleonora nutrono per il teatro li porta ad alzare sempre più l’asticella dell’immedesimazione, in parte perché anche costretti da un regista che vede in Stanislavskij – e nel suo metodo – una sorta di divinità. I due, chiamati a interpretare una coppia in crisi, iniziano a scoprire lentamente le carte non solo sul palcoscenico; il lettore viene così trasportato in un vortice autodistruttivo, in cui i coniugi arriveranno a confessarsi azioni ignobili. Si scopre così che l’amore che da trent’anni li unisce è in realtà, da parte di Eleonora, un desiderio di rivalsa sociale, e per Francesco, un modo per nascondere a sé stesso la sua omosessualità. L’aspetto più interessante del racconto, caratterizzato da una tensione emotiva da manuale, è la divisione in atti e scene che culminano in un drammatico finale. Per l’autrice “Il teatro è un non luogo che contiene tutti i luoghi e le innumerevoli sfaccettature dell’animo umano, messe sotto una lente potentissima”; il teatro diventa dunque una metafora dell’animo umano, ricco di luci, ombre e di inquietanti “quinte”. Lo stile della Vicidomini è felice e crea personaggi coinvolgenti. Ogni rivelazione aumenta la tensione che si crea nella coppia pagina dopo pagina, e rende credibili gli equilibri che reggono una situazione familiare ai limiti. Menzione particolare la merita il regista teatrale Carrisi, abile nel manovrare gli invisibili fili che lo legano alla coppia. Non è difficile leggere in questa figura un’anima nera e diabolica; non a caso, il serpente che l’uomo incontra mentre si reca alla casa può essere letto come una sua rappresentazione.
Seppur con qualche esagerazione di troppo, Nero come il buio è una raccolta organica e ben organizzata, capace di sollecitare intime riflessioni sull’animo umano e sulle sue follie.
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