Regia di Elio De Capitani – Al Teatro Bellini di Napoli dal 7 al 12 febbraio.
di Antonio Tedesco
Le ossessioni. I pensieri fissi che ti rodono l’anima e ti mangiano la vita. Achab, la balena bianca. Il mito del Leviatano. L’uomo che si oppone alle forze della natura in una sfida disperata e senza speranza. L’arte che se ne fa interprete e diventa l’ultimo baluardo di questa impari lotta. Un grande romanzo. Il teatro. Ma un teatro “aperto” che dichiara a priori la sua funzione. Quella di rappresentare, di finzione che serve a scavare nella verità della condizione umana. Chi altri è Achab se non un uomo che urla tutta la sua rabbia, forse l’odio, proprio contro quella natura che lo ha generato e reso allo stesso tempo impotente, che gli ha dato illusioni di grandezza e poi lo ha ingabbiato nei suoi angusti limiti. E quanto fascino esercita questo personaggio grazie proprio alla caparbia ostinazione con cui persegue uno scopo impossibile da raggiungere. Il Moby Dick di Melville celebra questo confronto titanico e perduto e lo sublima nell’arte. Affascinando, non a caso, un altro, a suo modo, titanico eroe di imprese grandiose e perdute, come Orson Welles. Che, ossessionato a sua volta da quel romanzo, decise di portarlo in scena, Non operando una semplice riduzione, ma immergendolo, letteralmente, in una sorta di humus teatrale. Innestandolo su Shakespeare, in particolare sul Re Lear, e imbevendolo di echi pirandelliani. Chiedendo al pubblico, come si fa con un romanzo, di completare con l’immaginazione ciò che la scena non poteva offrire. E richiamando, in questo modo, i “cuori di tenebra” che risuonano da tanta grande letteratura. Un teatro che si dichiara per quello che è, dicevamo, perché solo così, per assurdo, può esorcizzare la finzione consolatoria e appropriarsi fisicamente, in quanto strumento, del dramma che rappresenta. Tra Re Lear, che combatte contro la sua balena interiore e solo alla fine arriva veramente a sfidarla, e il Kurtz di Conrad, cuore nero di un mondo civilizzato che, per avidità e cupidigia ha brutalmente violentato quella natura non certo innocente e immacolata, ma a suo modo vergine, emerge, possente, la figura di Achab, e su di essa, come in una sorta di sovraimpressione cinematografica, si staglia quella di Welles. Che Elio De Capitani, che porta per la prima volta in Italia questo potente dramma nell’ottima traduzione di Cristina Viti, con la produzione del Teatro dell’Elfo e dello Stabile di Torino (a Napoli, al Teatro Bellini fino al 12 febbraio), ricalca a sua volta con grande maestria e acuto senso della scena. Ricoprendo, come già Welles nell’edizione del 1955 a Londra, quattro ruoli (impresario, Re Lear, Achab e Padre Mapple) e riportando il teatro alla sua funzione originaria di sudore e polvere, di fatica e impegno fisico. Con una affiatata Compagnia di attori , ognuno impegnato in più ruoli, da Angelo Di Genio (Ismaele) a Cristina Crippa, Enzo Curcurù per citarne solo alcuni e con una menzione speciale per Giulia Viana, anche efficace interprete dei “sea shanties” che, con i suoni e le musiche eseguite in scena da Mario Arcari, accompagnano lo spettacolo creando ulteriori suggestioni. Una Compagnia che, partendo da atmosfere shakespeariane, si ritrova a diventare ciurma del Pequod. Manovrando alberi e vele. Muovendo e disponendo elementi scenici per fare e disfare ambienti, per fissare, con l’aiuto delle luci che vanno man mano incupendosi mentre il dramma si avvicina al suo culmine, momenti narrativi e climax drammatici. Facendo percepire un mare che non c’è. Una nave fantasma. Uomini già votati alla fine. Già ombre di se stessi nel momento in cui si sono lanciati nell’impossibile impresa. Con le maschere che aderiscono ai loro volti a sancirne una dimensione universale. Moby Dick alla prova. E un teatro che “prova”, che continua a provare, con grandezza e umiltà a racchiudere in due ore e mezza, circa, di spettacolo, il mistero di un’umanità che non sa rassegnarsi. Che continua a ostinarsi. Sera dopo sera. Prova dopo prova. Aprendo e chiudendo simbolicamente il suo sipario. A tentare invano di catturare quella balena. Di ucciderla. Di squarciare il velo della verità.
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