Io ti conosco
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Scritto e diretto da Laura Angiulli (2025)
Teatro di Corte di Palazzo Reale di Napoli, il 1° luglio per la Rassegna “CINEMA DI
LEI, PROSPETTIVE DEL REALE” curata da Roberto D’Avascio, nell’ambito del
Campania Teatro Festival 2025.

di Antonio Tedesco
Identificazione di una donna. A partire dagli abissi dolorosi di un trauma che non riesce a sanare. Ma anche identificazione di un cinema, di un’idea di cinema che utilizza i suoi peculiari strumenti, l’immagine, la luce, il montaggio, per farsi tramite di una ricerca interiore, di uno scavo nell’animo e nella psiche, nell’esplorazione di un disagio, che emerge senza essere detto. Un cinema che si confronta con l’indicibile. Che aderisce perfettamente, nel linguaggio e nella forma al tumulto emotivo della sua protagonista. Ne registra i sussulti del corpo e le pulsioni più intime e segrete. E riesce a renderli tutt’uno nel flusso di immagini, ma forse sarebbe meglio dire di visioni, che da quello stesso corpo di donna, Nina, la protagonista, paiono generarsi. Io ti conosco, di Laura Angiulli, è un film che sembra originarsi dalla storia stessa che racconta. Un film che si mette in ascolto di un universo privato, ma con risonanze universali allo stesso tempo, e lo rappresenta per come si mostra, con le sue contraddizioni, le sue incertezze, le sue domande senza risposta. Senza alcuna pretesa di risolvere, e tantomeno di spiegare, la sofferenza interiore di Nina. Che è una condizione esistenziale e come tale né spiegabile, né risolvibile. Ma ce ne presenta stralci, frammenti, lampi che seguono il diagramma interiore della donna, i suoi picchi e i suoi abissi, la lotta incessante che dilania il suo animo. L’insanabilità di un trauma troppo grande. Che si riflette come in uno specchio deformante nei suoi rapporti interpersonali. Che scava nella propria oscurità, Nina e il film con lei, senza poterci dire ciò che vede, perché le parole non ci sono, o non sono adeguate. È una sorta di metafilm a più livelli Io ti conosco. Sia perché si fa, nella forma, emanazione della sua protagonista, sia perché la stessa Nina lavora al montaggio di un film che pare essere la messa in scena del trauma che la affligge. Una ulteriore proiezione della sua ossessione che ancora una volta non può trovare altra forma che quella fisica, seppur inafferrabile, di immagini compulsivamente riviste e riproposte.
Con questa sua opera Laura Angiulli si pone sulla scia di un cinema di donne (fatto da donne) che si immerge nella ricerca delle radici profonde di un universo femminile complesso e articolato, segnato spesso da esperienze traumatiche che ne marcano l’esistenza come cicatrici indelebili. Possiamo pensare al cinema della belga Chantal Akerman e in particolare ad alcune sue opere come l’esordio nel lungometraggio del 1974, dal titolo Je, tu, il, elle, dove in tre momenti ben distinti si esplorano gli aspetti di una personalità multiforme e contraddittoria segnata essenzialmente dal disagio di esistere e dal tentativo di lottare contro tale disagio. Ma anche Les rendez-vous d’Anna che mette al centro un’altra figura femminile che trova suoi peculiari modi di confrontarsi con la vita, per non parlare del capolavoro della regista, Jeanne Dielman, del 1975. Come intorno alle inquietudini di una giovane donna ruota anche il film in odore di Nouvelle Vague di Agnes Varda, Cleo dalle cinque alle sette, del 1962. Questo per ribadire la valenza di un cinema che, invece che limitarsi a raccontare storie, le vive, nelle forme e nei modo espressivi, insieme alle sue (o suoi) protagonisti, assecondandone impulsi e aneliti, facendosi cassa di risonanza del nascosto, dell’impercettibile, a volte del vuoto. Un vuoto che Nina riempie di tensioni incontrollabili, grazie anche alla notevole prova di Sara Drago, attrice di formazione teatrale ma dotata di una decisa fisicità, un “animale da palcoscenico” che sa offrirsi alla macchina da presa con eguale determinazione ed efficacia. Assumendo su di sé il corpo, anche psichico, di Nina. Spigolosa e fluida ad un tempo, come l’acqua, come il mare, che riveste un importante valore simbolico all’interno del film, luogo della perdita di sé, attraverso la perdita di chi (forse) si ama. E che ostinatamente si continua a cercare, attraverso sensazioni, dettagli, sovrapposizioni illusorie. In una sorta di rovesciamento hitchcockiano, anche “l’uomo che visse due volte” non può essere una soluzione ma solo un’altra dimensione del vuoto, come quella tromba di scale che, simile a una vertigine, respinge e attrae allo stesso tempo Nina. E sulla quale il film si chiude in un finale “aperto”, come non poteva essere altrimenti. Fondamentale alla riuscita del film, oltre la prova d’attrice di Sara Drago, ma anche del resto del cast di cui segnaliamo almeno Ludovico Fededegni, nel ruolo di Giulio, marito di Nina, la fotografia di Cesare Accetta che si cala perfettamente nei toni del film sottolineando con un preciso dosaggio di luci e di ombre le contraddizioni e gli stati d’animo contrapposti nei quali Nina irrimediabilmente si dibatte.
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