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Fortress o Smiles

Diretto e scritto da Kuro Tanino

Al Teatro Bellini di Napoli dal 21 al 25 febbraio



di Antonio Tedesco

 

Piccoli eventi quotidiani. La vita che si ripete uguale a se stessa, giorno dopo giorno. Alternando umori, stati d’animo, emozioni piccole e grandi. Se le storie epiche, avventurose, drammatiche o tragiche, alimentano la fantasia dello spettatore e lo fanno fremere e palpitare trasportandolo in mondi nuovi, diversi e sterminati, sono le piccole storie comuni, quotidiane, raccontate con delicatezza, con minuziosa attenzione ai dettagli, con amorevole partecipazione, quelle che realmente creano empatia. Quelle che veramente ci emozionano. Nel profondo. È la lezione di autori come Cechov, per rimanere nel contesto del teatro. O Yasujiro Ozu, per citare un cineasta giapponese che ha saputo “raccontare le semplici storie della gente comune”, come dice Wim Wenders in Tokio-ga, il film che ha dedicato al grande maestro.

Su questa scia, una sorta di oscuro e luminoso a un tempo, “meraviglioso del quotidiano”, si pone Kuro Tanino, regista giapponese che le cronache ci dicono molto apprezzato e premiato in patria, con questo suo Fortress of Smiles di cui cura testo e regia, e che è in scena al Teatro Bellini fino al 25 febbraio. Lo spettacolo è la storia “in minore” di due piccoli mondi contigui, che si trovano casualmente a dividere, per un breve periodo, un pezzetto delle proprie esistenze. Siamo in un piccolo villaggio della costa giapponese, di fronte al mare. La scena, divisa in due settori, ci mostra questa coppia di piccole abitazioni, modeste, ma scenograficamente curate in ogni dettaglio. Da una parte c’è un gruppetto di pescatori che, dopo la dura giornata di lavoro, ha l’abitudine di riunirsi lì, nella piccola casa del “capo”, proprietario della barca su cui escono in mare, a bere, mangiare, giocare a carte, allegri e fracassoni. Dall’altra parte, trasferitisi da poco e per breve tempo, un uomo che accudisce la vecchia madre, afflitta da demenza senile, con l’aiuto saltuario e svogliato della giovane figlia. Le azioni procedono con ritmo parallelo, a volte alternate, a volte simultanee. I componenti dei due nuclei interagiscono solo per brevi momenti. Eppure si ha impressione che le loro vite siano frammenti fortemente rappresentativi di un universo più vasto. Nel quale, durante le quasi due ore di rappresentazione, ci sentiamo coinvolti e partecipi. Non accade nulla di eccezionale o di eclatante. Le emozioni dei singoli personaggi sono contenute, compresse, interiorizzate. L’esuberanza dei pescatori e la compassata mitezza dell’uomo che assiste la madre, così come la malcelata insofferenza della figlia, fanno da schermo alle ansie, alle paure, ai non detti che si agitano, e si intuiscono, nel fondo dei personaggi. E dei quali ci arriva solo qualche sporadico segnale. Qualche traccia che, timidamente, con riservatezza tutta orientale, trapela fino in superficie. Alimentata anche, in qualche caso, da riferimenti ad alcuni elementi della cultura occidentale. Da Per un pugno di dollari, visto in TV da uno dei pescatori, a brani da Il vecchio e il mare di Hemingway, letti ad alta voce dall’uomo della casa accanto, mentre la vecchia madre dorme. Letture e visioni che lasciano entrambi perplessi (in uno dei momenti più ironici, ma anche significativi, della rappresentazione) di fronte allo strano modo di essere e di comportarsi, dei protagonisti di quelle storie così strambe che per loro risultano, sotto certi aspetti, incomprensibili.

Si può dire che Fortress of Smiles sia teatro puro. Dove ciò che conta veramente è la fitta teoria delle azioni, dei piccoli gesti che riempiono la scena e la quotidianità dei personaggi. Una drammaturgia scenica, appunto, dove il dialogo (in lingua originale, tradotto nei sovratitoli) è, per la maggior parte, solo un supporto che accompagna quanto viene visivamente rappresentato. Una tessitura intensa, espressa, anche in senso metateatrale, come una sorta di apparizione. Il “capobarca”, la cui voce fuori campo apre e chiude la rappresentazione, confessa di non essersi accorto, dapprincipio, dell’arrivo dei nuovi vicini e neanche, alla fine, della loro partenza. Piccoli, quasi impercettibili segni di un’angoscia sommersa, soffocata, nascosta dietro le grandi mangiate e le fragorose risate. Il tutto affidato alla aderente partecipazione e alla ammirevole maestria attoriale dei componenti della compagnia Niwa Gekidan Penino, diretta dallo stesso regista Kuro Tanino, che sanno esprimere con accuratezza le tipologie dei singoli personaggi e farne trapelare, senza esibirle, incertezze e fragilità. Una Compagnia lungamente festeggiata e applaudita dal pubblico attento e “sospeso”, si potrebbe dire, durante tutta la durata dello spettacolo. A conferma che le scelte coraggiose pagano, e che è salutare, ogni tanto, lanciare un’occhiata fuori dal proprio ristretto orizzonte.

 

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