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CIOCCOLATA CALDA PER DUE

di Nunzia Gionfriddo

Recensione di Bruno Sacco

Due persone mature: lei, Florinda, una scrittrice e ricercatrice sulla cinquantina, ma ancora piacente e avida di vita («decisamente una donna bella, nonostante non fosse giovanissima»); lui, Giovanni, un ingegnere triestino di dieci anni più anziano, «l’aspetto di un signore d’altri tempi». Sullo sfondo, ma tuttora viventi e operanti nelle coscienze, le tormentate vicende dei Balcani, dalla feroce pulizia etnica di Tito nell’immediato dopoguerra al martirio di Sarajevo, cannoneggiata dall’artiglieria serba per quattro lunghi anni tra il 1992 e il 1996.

Quando il racconto inizia, queste vicende si sono già da tempo concluse, ma hanno lasciato ferite profonde nelle vite di tanti, soprattutto di chi ha perso nel conflitto persone care.

È il caso di Giovanni. L’ultimo contatto con Svetlana, l’amata moglie bosniaca – accorsa a Sarajevo presso i genitori ammalati proprio in corrispondenza con l’inizio dell’assedio serbo – una telefonata troncata sul nascere da chissà quale violenza. Poi, mai più notizie di lei.

L’interesse professionale di Florinda per la ricostruzione fedele dei fatti relativi alla ex Jugoslavia, e in particolare delle persecuzioni contro italiani e slavi, spinge costei, tramite il web, sulle tracce di Giovanni, che dirige a Roma un’associazione per l’accoglienza di profughi e rifugiati politici. Questo interesse, però, si trasforma presto – ma non senza tentennamenti e imbarazzi da parte di entrambi – in un legame affettivo, che s’instaura tra i due appena si incontrano a Roma, in una fredda mattinata invernale, davanti a una tazza di cioccolata calda in un bar di piazza Venezia.

Così la confortevole bevanda acquista una connotazione simbolica, assurgendo ad emblema di una unione spirituale che quasi inavvertitamente si evolve in amore: un amore che si fa poetico trasporto, ora frenato dalla riservatezza di entrambi, ora accelerato dal bisogno crescente di stare insieme, di raccontarsi le loro storie pregresse popolate di ombre, di riscoprire la possibilità di un imprevisto, inatteso riscatto da un’esistenza che si intravede delusa e consegnata alla monotonia di una scontata routine. L’attrazione spirituale e fisica che si accende in loro li rende indispensabili l’uno all’altro, àncora di salvezza reciproca.

La malattia di Giovanni li tiene separati per lunghi mesi, parimenti ansiosi per la gravità, ma in fondo ottimisti sul suo esito felice, nella convinzione quasi adolescenziale di una sorta di facoltà taumaturgica del sentimento amoroso. Il distacco forzato, provocato dalla necessità di Giovanni di curarsi in una clinica svizzera (dove lo accompagna il figlio Darko), consente a Florinda di andare a Sarajevo per condurre “sul campo” ulteriori ricerche, anche con l’inconfessato proposito di trovare notizie sulla sorte di Svetlana, forse per scacciare l’ombra che grava sul suo rapporto con Giovanni.

Durante la separazione il rapporto affettivo, condito di dolcissime malinconie e di disperate speranze, si condensa in un appassionato scambio epistolare, da cui traspare la forza crescente e ormai incontenibile di un sentimento che travalica ogni remora e incertezza e ha come unico obiettivo la possibilità estrema di una vita da vivere insieme.

Nei capitoli finali, dopo la pausa delicata e sofferta del carteggio, il ritmo narrativo si fa improvvisamente spedito, quasi frenetico, come fiume in prossimità delle rapide, traducendo l’ansia dei due protagonisti di ritrovarsi anche materialmente, di vincere insieme l’ultima lotta contro il male che attanaglia Giovanni. Una lotta in cui le armi non sono più tanto quelle della scienza medica, quanto quelle dell’amore e della fiducia in una vita in comune.

Con felice intuizione Gionfriddo non cede alla tentazione di un oleografico lieto fine, né a quella di un finale tragico. A un passo dalla svolta decisiva il romanzo si ferma, lasciando che il lettore divenga lui artefice di una conclusione, o forse limitandosi a suggerirla all’immaginazione di chi legge. Un modo raffinato per suggellare l’imprevedibilità della vita.

Il romanzo si rivela scritto con passione, isolandosi sostanzialmente intorno a due soli personaggi, secondo una tecnica che potremmo definire bifocalizzata. Gli avvenimenti, infatti, più che essere narrati direttamente sono affidati alla memoria evocatrice dell’uno o dell’altra dei due, con un’unica terza protagonista: la tragedia balcanica, dalle vicende agghiaccianti delle foibe titine, colpevolmente occultate per anni dalla storiografia “ufficiale”, al martirio di Sarajevo, con accorate note di comprensione per tutte le vittime di quelle orrende carneficine, senza distinzioni etniche, ma anche con precise messe a fuoco di colpe e responsabilità facenti capo rispettivamente a Tito prima, a Milosevic poi.

Col coraggio civile e con la facilità narrativa già mostrati ne Gli angeli del rione Sanità, anche qui Nunzia Gionfriddo ci conduce per mano nelle vicende, con sapiente gradualità, per cui ogni pagina richiama inevitabilmente la successiva, ogni capitolo aggancia il seguente tenendo costantemente desta l’attenzione del lettore. Nella delicata autenticità del rapporto che si crea tra i maturi Giovanni e Florinda vanno anche abilmente a stemperarsi – pur non perdendo nulla della loro efferatezza – le fosche tragedie che formano il background delle loro vite.

Forse per questo si è portati a cogliere la frase sospesa che conclude il libro come la fugace scintilla di una rinnovata, ostinata speranza.

Edizioni Pegasus, euro 13, pag 160



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